Una vera e propria biografia di san Leo non esiste negli archivi religiosi. In ogni caso, sono molti i riferimenti che ci permettono di operare una ricostruzione quanto mai fedele della sua esistenza, ed in particolar modo, del suo operato. Fra i tanti religiosi che dal mille al milleseicento circa, popolarono le vallate dell’Aspromonte, forse il più importante è proprio San Leo, al secolo, Leone Rosaniti. Una vita, quella di Leone Rosaniti, vissuta fra i monti che fanno da cornice ai centri di Bova ed Africo.
Controversa e, da sempre, oggetto di disputa la teoria sui suoi natali; una diatriba che vede contrapposti proprio gli abitanti di Bova ed Africo, accomunati dalla fede ma per contro divisi da uno spesso futile ed incomprensibile campanilismo. Le informazioni sulla vita di san Leo ci vengono date dalla tradizione, in particolare ci vengono raccontate da una sorta di preghiera narrativa, detta “raziuni”, cioè orazione (oppure anche “canzuna“) “di santu Leu“.
Sappiamo, così, che da giovinetto andava a scuola «al convento» (probabilmente il monastero della santissima Annunziata di Africo), ma che, ad un certo punto, scompare. Il «padre priore» manda due scolari a cercarlo ed essi lo trovano dentro una grotta, nel mentre «faceva penitenza e orazioni». Il padre priore, allora, invitò gli scopritori al silenzio, perché Leo andava preso «con parole dolci», ed intanto, si mise a preparare l’abito per monacarlo.
La vita solitaria, dunque, accanto alla preghiera comprendeva il lavoro, e questo era faticoso, umile ed alla stregua della più semplice classe sociale, quella dei boscaioli che ricavavano la pece dagli alberi. Infatti san Leo è raffigurato con la scure ed il pane di pece. Il suo primo miracolo e poi la notizia che san Leo vendeva la pece a Messina a benefìcio dei poveri, indica la sua umile provenienza.
Il Passo della zzjta
Non abbiamo precise notizie in merito per respingere o accogliere ciò che si narra sul “passu di la zzjta”. Quel passo sulla via della montagna, attraverso cui sono passati gli abitanti di Pesdavoli, di Roghudi, di Africo con le loro masserie, là i monaci pionieri vi avevano costruito i loro cenobi fin dal VII secolo, unica Via tra Reggio e Bruzzano. Purtroppo non conosciamo la cronaca di quanto accaduto in questo luogo nel basso medioevo, resta soltanto quanto tramandato dalla genialità popolare. Erano le prime ore del giorno quando la “zzjta” , promessa in sposa dal padre ad un notabile, lascia la casa materna, era lunga e faticosa la strada per arrivare in chiesa, camminando, camminando i castagni cedettero il posto al frumento, l’amore all’obbedienza, l’angoscia alla dignità.
“La strada passava piacevolmente fino a quando il mare entra nel superbo panorama, la pietra diventa grigia e ferrigna quasi nuda e la montagna soprastante precipita nell’abisso e giù a destra si hanno colpi d’occhio pittoreschi sulla rapace fiumara Amendolea, prima che il sentiero oltrepassi l’arco scavato nella roccia, ecco improvvisamente con un balzo la “zzjta” si lancia nel vuoto. Il corteo ammutolisce e con gli sguardi si chiede il perché”.
Perché il matrimonio che stava per fare era stato combinato dal padre senza che lei ne fosse messa al corrente, non provava nessun affetto verso il futuro marito, lei amava un giovane pastorello del posto al quale aveva giurato amore eterno e, ad una vita senza amore ha preferito la morte.
Ricordiamo questa poveretta come ricordiamo tutte le cose triste di questa terra, e mano pietosa a futura memoria vi piantò una croce.
E’ da allora che nella cultura popolare il sito inizia a convertire il suo nome da “porticedda” a “passu di la zzjta”. Oggi noi non sappiamo dove finisce la leggenda ed inizia la realtà, di certo è che sul bordo del sentiero dove il precipizio diventa più profondo vi è piantata una croce in ferro.